5.24.2003

Tornare nei ranghi

Prima che questa Italia si riprenda la semplicità dello spirito con cui sono ritornata, voglio ricordare questo mese passato a Cuba, non da turista, ma come un’anima che per tanti anni ha vagato alla ricerca di un luogo dove sentirsi veramente a casa. Oggi mi è difficile persino scrivere in italiano. Mi verrebbe di raccontare in quella lingua, che sento mia, perché è in spagnolo che ho vissuto tutte le mie emozioni. Non è per caso che i popoli parlano lingue diverse e il popolo cubano ha trasformato tutto, anche il linguaggio, lo spagnolo è diventato cubanismo con frasi intraducibili e incomprensibili a chiunque non senta il desiderio di vivere l’isola grande come una parte di se mai scoperta nel corso della propria esistenza.
Se La Habana ha il fascino delle grandi città appoggiate sul mare, se a La Habana senti ancora la parte turistica di te che va alla scoperta degli angoli incantati, delle terrazze che guardano la Baia, dei bar dove la musica ti entra nei fianchi fino a farti desiderare di muoverli con una sensualità inaspettata che da sempre credevi di non avere, è a Colon che ti senti veramente in sintonia con la vita e l’universo.
Sono arrivata a Colon con un bus sgangherato, il mio sedile era rotto e la cervicale non dava segni di vita, qui mi duole anche solo per un cuscino troppo alto o troppo basso.
Dopo 5 ore di viaggio mi sentivo un fiore, nonostante il caldo e l’aria condizionata che ormai su quel bus non funzionava da anni. Il mio vicino di sedile, 21 anni, in 5 ore mi ha raccontato tutta la sua vita, bugie e verità si mescolavano nel racconto e le bugie erano così evidenti che mi piaceva credergli così come mi piace credere che sia vero tutto ciò che leggo nei libri di Garzia Marquez.
Il viaggio, era la prima volta che viaggiavo sola a Cuba, mi è parso più facile di quello che normalmente faccio in treno per arrivare a Savigliano, qui non so mai se l’ultima stazione è Racconigi o Cavallermaggiore. Riconoscevo nel tragitto Jovellanos per la sua terra rossa e la percentuale di neri rispetto ai bianchi della popolazione, poi Perico, Coliseo e Colon.
Juan Carlos Pena mi aspettava alla stazione con una rosa in mano. Tutti gli altri tutti in bicicletta. Il calesse col cavallo trasportava me, il mio bagaglio, Laima, Giovani, Carmen attaccati dietro per non pedalare. Attraversare la città in queste condizioni voleva dire avvertire la popolazione che stava arrivando lo straniero (la Yuma).
La splendida casa coloniale e decadente è casa mia più di quanto non siano state le efficentissime case in cui ho vissuto i miei 54 anni a Torino.
Una doccia, un succo di mango, due gallette e un pezzo di formaggio e poi via per la strada a vivere la vita loro, quella di tutti i giorni, quella della lotta per capire che cosa si mangerà a pranzo.